Memorie di un koshukai

Faceva caldo, quel pomeriggio di fine luglio. L’ampio spazio del Dojo di Sensei, circondato dalle pareti rivestite in legno, manteneva l’ambiente in una suggestiva penombra ma certo non ci isolava più di tanto dall’afa ardente che martellava chi si avventurava per strada e non aveva la fortuna di sollazzarsi al mare o in montagna.

Una decina di noi, abbigliati con i classici keikogi di spesso cotone bianco, eseguivano con impegno ed attenzione le tecniche volta per volta mostrateci dal nostro Maestro. Avevamo la fortuna di poter passare con lui alcuni giorni ricevendo un insegnamento diretto e – di fatto – personalizzato, una occasione più unica che rara riservata solo a pochi allievi particolarmente fidati, che Sensei sapeva capaci di andare oltre quello che gli occhi profani erano in grado di vedere.

Stava terminando la seconda ora di pratica, il sudore scendeva copioso e rendeva scivoloso il tatami e un po’ difficili le prese al polso ma nessuno voleva rallentare il ritmo. C’era alla base il rispetto e la devozione verso Sensei che ci donava la sua esperienza ed il suo insegnamento, ma c’era anche una sorta di bonaria sfida tra i presenti, provenienti da diverse nazioni europee. “Se noi sentiamo caldo, pensa loro come staranno soffrendo!” aveva commentato Francesco nei minuti di pausa al termine dell’ora precedente. “Loro” erano Mark, Ingrid ed altri compagni di pratica provenienti dalla Germania e dalla Scandinavia, certamente meno abituati di noi a temperature nell’ordine dei 35°C all’ombra.

Mal comune mezzo gaudio…” pensai tra me e me, cercando di convincermi della bontà di questa affermazione che mi aveva sempre lasciato perplesso, mentre subivo insieme a Dario uno shi-ho-nage applicato da Sensei per mostrare una variazione della tecnica di base. Provammo poi noi a riprodurre la tecnica al meglio delle nostre possibilità, per concludere la pratica – come da tradizione – con un ryote dori kokyu-ho eseguito in ginocchio, infine uno stentoreo “Yame!” ed un doppio battito di mani segnarono la fine della sella sessione.

Ci piazzammo rapidamente sulla shimoza - il lato del tatami su cui normalmente si allineano gli allievi nei momenti di pausa o durante le spiegazioni dell’insegnante – in attesa del saluto, mentre Sensei ci guardava. Avemmo cura di disporci in ginocchio e per ordine di grado, riassettando velocemente la giacca del keikogi e la cintura, in attesa del saluto finale.

I secondi scorrevano lenti e cadenzati come le gocce di sudore che scorrevano lungo la nostra schiena, Sensei continuava a guardarci senza dire una parola, e più di qualcuno cominciò a temere un rimprovero aver combinato qualcosa di grosso. Ci fu un ultimo sguardo con cui Sensei guardò tutti e ognuno e poi chiese: “Che cosa abbiamo fatto oggi?”.

Era una domanda apparentemente banale, a cui ognuno di noi avrebbe potuto rispondere senza problemi, ma era chiaro che quello che ci veniva chiesto non era l’elenco di tecniche praticate quel pomeriggio. Se c’è una cosa che l’Arte – qualunque Arte – insegna, è che nulla è più difficile della semplicità; Cimabue – racconta la leggenda – riconobbe la maestria di Giotto vedendolo tracciare un solo cerchio con mano ferma, le ricette più gustose hanno alla base tre o quattro ingredienti e alcuni immortali capolavori della musica si basano su poche note. Quello di Sensei sembrava essere un vero e proprio koan, il quesito che il Maestro Zen rivolge ai suoi allievi per saggiarne il progresso sulla Via.

Nessuno rispose, e più di qualcuno scrutava con la coda dell’occhio l’espressione del vicino, per consolarsi leggendo sul suo viso la sua stessa perplessità. Non si trattava del timore di fare una brutta figura, sapevamo benissimo che se Sensei avesse voluto avrebbe potuto rilevare almeno una decina di errori nella pratica del più preparato di noi, era piuttosto come se sapessimo che qualunque nostra risposta non sarebbe stata all’altezza della profondità della domanda.

Qualcuno cominciava ad accusare i dolori causati dai primi crampi dovuti all’allenamento  ed alla posizione di seiza , ma a parte qualche (quasi impercettibile) oscillazione, nessuno si muoveva, un tempo sospeso in cui solo il ritmico movimento della respirazione addominale testimoniava che non si trattasse di una installazione di arte moderna iperrealista.  

Poi Sensei cominciò a parlare.

Oggi abbiamo eseguito delle tecniche marziali, direbbe qualcuno, ma più in generale – come in qualsiasi Arte – abbiamo creato qualcosa che prima non c’era, che avrà una certa durata e che poi non ci sarà più. In alcune Arti questo avviene trasformando la materia, in altre con ingredienti più sottili, ma in ogni caso ciò che è stato creato lascerà un segno negli artefici, anche se la creazione si dissolverà. Oggi la fisica parla di entanglement, un fenomeno basato sulla equazione di Dirac, ma è un qualcosa che le antiche tradizioni hanno sempre affermato, in tempi e modi diversi.

Anche per questo motivo – proseguì Sensei penetrandoci con lo sguardo – è un grave errore confondere il Dojo con una palestra. Dojo è un laboratorio alchemico, il tatami è un atanor che serve a distillare la nostra essenza eliminando le scorie fisice, emotive e spirituali che la inquinano. So bene che questo discorso potrebbe sembrare agli orecchi di molti uno sproloquio senza senso, ma non a caso le Arti, tutte le Arti, sono riservate a chi ha occhi per vedere ed orecchie per ascoltare, e non mi riferisco solamente ai sensi fisici.

Noi diamo un nome all’Arte che pratichiamo – aggiunse ancora Sensei – ma questo è un termine, una etichetta, una definizione che vale fino ad un certo punto. Quello che conta è il Principio che applichiamo, non il nome in cui lo definiamo. Potremmo combattere contro un avversario armati di spada come nel Kendo, potremmo affrontare un avversario immaginario con una spada vera come nello Iaido o potremmo affrontare con il massimo della determinazione un rivale inesistente come nel Karate o nel Tai Chi Chuan. Potremmo disporre i fiori con cura come nell’Ikebana o impegnarci nel preparare una tazza di tè come nel Chado, potremmo tracciare ideogrammi con pennello e inchiostro come nello Shodo o non fare niente di tutto questo, coltivare frutta e verdura, costruire un castello di carte, realizzare un puzzle o compiere un pellegrinaggio; quello che conta è il modo in cui la nostra Intenzione esprime il nostro Spirito. Una tecnica, un gesto, una azione, se eseguiti correttamente, con la necessaria consapevolezza, con la doverosa chiarezza di intenti diventano evocazione ed invocazione, sono un atto rituale, magico e creativo.

Nel nostro caso – sottolineò Sensei percorrendo con lo sguardo la linea di allievi che lo ascoltava -  agiamo in due, due elementi che si combinano unendosi. Siamo il Mercurio e lo Zolfo della alchimia occidentale, che unendosi danno vita a qualcosa che è altro da loro ma che senza di loro non potrebbe mai essere. In matematica uno più uno fa due,  nell’Arte uno più uno fa Uno, perché il risultato non può che essere unico, come unico è il Rebis, l’Androgino che ha in se due nature.

L’Arte richiede di dosare gli ingredienti, l’Arte insegna l’economia e mostra che il troppo è dannoso come il troppo poco, che il circa non basta, che il pressappoco è insufficiente, che il quasi è una follia, ma che alla stessa maniera è altrettanto vano ricorrere all’arida precisione svincolata dalla sensibilità personale, dalle ricette preconfezionate, dalle istruzioni valide per tutti e quindi per nessuno. 

Ricordate sempre che i Maestri sono importanti – ci ammonì Sensei – ma non devono mai  diventare un alibi per la nostra pigrizia. Il Maestro ci indica la strada ma sta a noi percorrerla e comprendere se quella è davvero la nostra strada, consapevoli che la risposta di oggi potrà essere diversa da quella di ieri o di domani. Lo racconta bene lo Zarathustra di Nietszche: si ripaga male un maestro se si rimane suoi discepoli, occorre trovare il coraggio e l’umiltà di percorrere la nostra Via con il nostro passo.

E’ questo l’evidente segreto della nostra Arte, che si basa non sul passivo scimmiottamento di un gesto altrui, ma sull’ispirarsi a questo per esprimere lo stesso principio a modo nostro. La Quinta Sinfonia di Beethowen è uguale per tutti, eppure ogni orchestra ha un suo modo di eseguirla e la stessa orchestra – guidata da direttori diversi – la eseguirà in maniera differente e infine la stessa orchestra con lo stesso direttore eseguirà la stessa sinfonia in maniera differente oggi da ieri e da domani. L’atto è transitorio, il principio è eterno; potere applicare questo concetto alla triade corpo, anima e spirito o a qualunque altro argomento, la conclusione è stata, è e sarà sempre la stessa.”

Sensei rimase in silenzio, e ciascuno di noi aveva ben chiaro che taceva non certo per mancanza di argomenti o perché non vi fosse altro da dire. Piuttosto, come un attento soccorritore, dissetava un viandante perso nel deserto centellinando l’acqua per evitare che si affogasse. 

“Spero sia chiaro il motivo percui vi ho detto queste cose, perché le ho dette a voi e perché ve le ho dette adesso. Non sentitevi dei privilegiati e neppure incaricati di chissà quale missione di apostolato. Siete innanzi tutto responsabili verso voi stessi, e già questo è tanto, fate in modo di essere sempre degni di chi vi ha preceduto ed all’altezza di chi vi seguirà. Se sarà così, avrete onorato l’Arte e voi stessi, ed il tempo che avrete speso non sarà stato invano”.

Nessuno volle fare domande e d’altronde Sensei non ci aveva offerto la possibilità di chiedere ulteriori spiegazioni. Il Maestro si alzò, ci salutò con un breve inchino ed entrò nel suo spogliatoio. Noi rimanemmo fermi, come se ciascuno avesse la necessità di accogliere le parole ancora nell’aria, farle entrare nel suo cuore, lasciarle sedimentare nella sua anima, sentirle come una brezza che ravviva il fuoco dello spirito.

Poi, uno a uno, ci alzammo, nessuno diceva niente, qualunque parola sarebbe sembrata superflua. Ci cambiammo e uscimmo in silenzio, custodendo quelle parole oramai impresse nella nostra carne.

Sensei non tornò più sull’argomento; mi piace pensare perché ritenne che tutti noi lo avessimo compreso. Io da allora faccio del mio meglio per essere all’altezza della fiducia che ci volle concedere e spero di riuscirci, in attesa, forse, un giorno, di avere qualcuno a cui raccontare quanto ascoltai da lui su quel tatami, con la stessa speranza del contadino che sparge semi che un giorno daranno frutto.

 


Commenti

Post popolari in questo blog

Splendore

Libertà

Salita