Il valore del dissenso nel “Trattato del Ribelle” di Ernst Jünger

Salvatore Albano,L'angelo ribelle


Nella premessa del suo “L’Anticristo”, Friedrich Nietzsche afferma che c’è chi nasce già destinato ad essere compreso solo dai posteri.

Questo è vero per molti artisti, e non solo per il filosofo tedesco; da van Gogh a Ligabue, passando per John Keats, Franz Kafka ed Emily Dickinson, ma anche Edgar Allan Poe o Johann Sebastian Bach sono solo alcuni esempi. Altri ancora, pur essendo stati apprezzati in vita, furono autori di opere che anche a distanza di anni mostrano una straordinaria attualità, a volte ai limiti della preveggenza.

Tra questi possiamo includere anche Ernst Jünger, personaggio controverso e criticato per le sue idee politiche, ma che pure ha offerto della guerra una analisi lucida e tagliente. Una delle sue opere più note è il “Trattato del Ribelle”, un saggio sociopolitico del 1951 in cui l'autore si interroga sui compiti che spettano agli uomini liberi, nei momenti storici in cui la tirannia impedisce loro di esprimere, in modo democratico, le proprie giuste rivendicazioni.

A partire dalla sua definizione di “Ribelle”, nelle prime pagine di questo libro è descritta una società che in molti non faticheranno a vedere rappresentata anche in molte situazioni attuali, una similitudine sorprendente ma che può e deve farci riflettere sui limiti e di tutta una serie di libertà – vere o presunte.

Il “Trattato del Ribelle” fa parte di una serie di saggi con cui uno Jünger ormai quasi sessantenne si cimenta con le contraddizioni che stanno scoppiando nelle società occidentali, appena uscite dalla seconda guerra mondiale, che avrebbero dato origine – tra gli altri - ai totalitarismi comunisti a est della Germania Occidentale. 

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