Di gradi, promozioni, esami, titoli autoconferiti e umanità assortita


 

In questi giorni, con alcuni amici (mi piace chiamarli così, anche se con alcuni ci conosciamo solo virtualmente) si è discusso della vexata quaestio dei gradi, su quanto valgano e su cosa farebbero alcuni per appuntarseli sulla obi del keikogi.

Come in molte altre questioni, il mio atteggiamento potrebbe essere definito salomonico con un aggettivo benevolo, oppure pilatesco da chi mi abbia un po' meno in simpatia, poiché a mio modestissimo avviso, i gradi sono un onere piuttosto che un onore, e valgono tanto quanto chi li indossa e – soprattutto – quanto chi li ha concessi.

Non sono d'accordo con chi ostenta disinteresse per i gradi e ritiene l'esame poco più di una sceneggiata; per conto mio – pur non essendo un esempio di rapida carriera – credo che accettare di sottoporsi ad un esame sia una forma di rispetto verso sé stessi e verso il proprio Maestro, un modo per dirgli: “ti ringrazio per quello che mi hai insegnato e sono onorato di poterlo mostrare”. Chi si sottrae all'esame, a mio avviso più o meno inconsciamente non si fida di quanto ha ricevuto oppure (e non so cosa sia più da deplorare) non ritiene di dover ricambiare il proprio  insegnante per quanto questo si è speso per lui.

D'altra parte, molti dei marzialisti che più stimo hanno un grado medio, spesso conseguito a distanza di parecchi anni dal precedente. La loro perizia – tecnica, umana e culturale - unanimemente riconosciuta esclude l'ipotesi che non possano (debbano?) meritare di più.  Ma – come dice un saggio – la gramigna impiega un giorno per crescere, la quercia impiega un secolo, e quindi credo che certi avanzamenti troppo rapidi siano poco opportuni, anche perché – per dirla col Poeta: “chi troppo in alto sale, cade sovente precipitevolissimevolmente”.

Quindi, in breve, credo che sul tatami come nella vita si debba procedere avendo sempre a mente il motto antico “Festina lente”, ciascuno col suo passo.

Va da se che ritengo inopportuni certi rapidissimi avanzamenti, ed è di poca consolazione constatare che certi balzi improvvisi non sono appannaggio solo delle Arti marziali; vi è chi si presenta come ingegnere omettendo di specificare che lo è diventato “honoris causa” con una sconosciuta università del terzo mondo, chi mette in bella mostra una benedizione papale mancando di raccontare che chiunque potrebbe ottenerla compilando un apposito modulo dalle parti del Vaticano, chi si vanta di trascorsi nobiliari millantando di avi che frequentavano augusti manieri, dove però è più probabile che raccogliessero gli escrementi dei cavalli in qualità di stallieri.

Auspicando comunque il “mal comune mezzo gaudio” riporto allora un episodio che proprio ad aristocratici fasulli ed a nobili veri si ispira.

Oggi, ma soprattutto in passato, non era infrequente che un nobile civico di antichissima schiatta guardasse con sufficienza un titolato di recente nomina. In un aneddoto leggendario si racconta che il conte Volpi di Misurata (allora di recente investitura regia per meriti industriali e sostegno economico al regime) durante un trattenimento avvicinasse il nobiluomo Nani Mocenigo (di antichissimo patriziato veneto, conti solo sotto l'Austria ma fieri di essere solo N.H.) dicendogli che dopo attenta ricerca storica era venuto fuori che ci fosse un antenato Volpi alla battaglia di Lepanto: si narra che il Nani Mocenigo guardando l'interlocutore abbia sollevato i sopracciglio e chiesto: "ah sì, e vogava?" come a dire che se davvero quell'antenato fosse stato su una delle barche, altro posto non avrebbe avuto che incatenato ai remi come uno schiavo.

E tant'è.

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